Elogio del non fare

31 Ottobre 2015

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Viviamo nella società del fare, in cui agire è considerato un aspetto determinante. Per migliorare una situazione, per sentirci utili o per risolvere un problema, la prima cosa a cui spontaneamente ricorriamo è l’azione.
Generalmente, ciò che possiamo fare per migliorare il nostro piccolo mondo è piuttosto chiaro; meno chiaro è invece ciò che possiamo NON fare. E’ interessante infatti osservare come sia possibile ottenere degli ottimi risultati semplicemente evitando cattive abitudini; lo trovo un aspetto della vita quasi rassicurante.
Pensiamo, ad esempio, alla prevenzione. Per il bene della nostra salute, anche come sportivi, possiamo evitare alcune abitudini: non fumare, non bere troppo, non mangiare troppi grassi, evitare lo stress, non abusare di farmaci. Molto di ciò che possiamo fare per la nostra salute è sostanzialmente… NON fare.
In molti altri settori della vita viene sottovalutata l’importanza dell’astensione. Pensiamo anche alla salvaguardia dell’ambiente, in cui molto del nostro contributo è legato al NON fare: non inquinare, evitare di usare sempre l’auto, lasciare intatti gli spazi verdi, limitare i consumi, non sprecare. Anche socialmente, astenendosi, si possono ottenere ottimi risultati: evitare di dare giudizi sul piano personale, ad esempio, facilita molto le relazioni. Nello sport, non infierire su un compagno che ha commesso un errore.
Lo stesso concetto vale per il nostro approccio con i bambini. Solitamente, ciò che si può fare per una società sportiva, e di conseguenza per il proprio figlio-atleta, è piuttosto risaputo. Piccoli gesti, piccole azioni che favoriscono l’approccio allo sport, la motivazione, ma in un certo senso anche la prestazione.
Ci sono però molte cose che un genitore può NON fare per contribuire al benessere del proprio figlio. Ad esempio, evitare di arrabbiarsi durante le partite. Lo sport dovrebbe essere innanzitutto divertimento, gioia, condivisione; quando un genitore si arrabbia, non aiuta né il bambino né l’atleta. La grinta è infatti costruttiva, la rabbia perlopiù distruttiva.
Similmente, non esasperare l’importanza del risultato. L’obiettivo più rilevante è che il bambino si diverta, stia bene, si impegni. Il risultato è certamente importante, ma va necessariamente considerato in secondo piano.

Una classica abitudine da evitare è quella di dare giudizi di tipo entitario (“sei fatto così”); sentirsi definire in maniera rigida e immodificabile (“sembri fatto apposta per giocare a rugby” o al contrario “non sei portato per questo sport”) ostacola la motivazione dei piccoli atleti. Infatti, gran parte della considerazione che i bambini hanno di se stessi deriva proprio dal giudizio degli adulti di riferimento; quando il giudizio è troppo rigido, o stabile, tendono a indebolirsi la motivazione (“non serve che mi impegni, tanto sono forte”) e l’autostima (“non posso fare nulla per migliorare”).
Un altro atteggiamento poco sano è quello di criticare l’operato dell’educatore di fronte al bambino. Tutti sbagliano… tutti! E’ inevitabile commettere degli errori, a tutti i livelli. L’educatore però rappresenta la guida del gruppo, il punto di riferimento sportivo del giocatore; quando il genitore lo critica, magari pur avendo ragione, il bambino rimane disorientato. In questo modo si rischia di minare la fiducia del bambino nei confronti dell’educatore, nonché in se stesso.
Allo stesso modo, è importante evitare di attribuire all’allenatore, all’arbitro o alla squadra avversaria i risultati sportivi del bambino. Quando si cercano attribuzioni esterne, il bambino perde la consapevolezza dei propri mezzi poiché apprende di non poter far nulla per modificare la sua prestazione; il risultato appare sempre e comunque colpa/merito di qualcun altro. Allo stesso modo, è fondamentale non fomentare la competizione per il posto in squadra (“mio figlio ha giocato meno di qualcun altro”). Questo atteggiamento rischia di rovinare il clima del gruppo e non favorisce l’impegno del bambino; anzi, il messaggio che trapela è “se gioco, è perché i miei genitori si sono lamentati” e non invece per merito o per l’impegno profuso. Inoltre, si rischia di instaurare un circolo vizioso (“lui gioca perché i suoi genitori hanno parlato con l’allenatore, manderò pure i miei!”) con inevitabili ripercussioni sul clima di squadra.

Infine, l’abitudine più deleteria: cercare di assumere altri ruoli. Viviamo in un mondo di commissari tecnici, educatori, insegnanti, allenatori, psicologi. A volte basterebbe accettare il proprio ruolo, quello di genitore: il più difficile, il più importante, l’unico davvero indispensabile.
In tal senso, l’obiettivo comune dovrebbe essere quello di lavorare affinché ognuno possa interpretare il proprio ruolo nel migliore dei modi, utilizzando le proprie competenze e al contempo con la consapevolezza dei propri limiti, al fine di creare un ambiente sempre più favorevole allo sviluppo umano e atletico dei bambini. In questo processo, i genitori rappresentano una risorsa necessaria e irrinunciabile… soprattutto quando agiscono (nonostante l’elogio del non fare!). A loro, infatti, va il merito di portare i figli ad allenamento, sostenere la società, favorire l’impegno dei bambini; ma va anche riconosciuto loro di aver compreso l’importanza dell’attività fisica, dello stare in gruppo, sottostare a delle regole, relazionarsi con i pari, giocare in un ambiente sereno… E di tutto ciò non possiamo che essere grati.